“We are the children of concrete and steel, everything is possible but nothing is real” cantavano gli Americanissimi Living Colour negli anni 90, interrogandosi sul presente e sul futuro della loro nazione.
Oggi, che il piede sul pedale del turboconsumismo sembra essere spinto con la massima forza, queste parole suonano quasi profetiche.
L’America che ho visto mi ha colpito profondamente: una nazione pazzesca, in cui tutto puo’ convivere con il suo contrario ma alcune cose sono stranamente tabu’, in cui si sono raggiunte delle conquiste impensabili in ogni campo ma sembra così difficile fare molte cose che noi europei diamo per scontate.
La forma urbana delle città è una delle cose che mi ha più colpito.
O meglio, l’assoluta mancanza di forma. In America il concetto di città semplicemente non esiste. La città non è un luogo, inteso come identità forte di uno spazio in cui qualcuno – un antico impero o anche solo una municipalità in tempi più recenti – ha pianificato il senso dello sviluppo. Nella parte di America che ho visto la città – piccola o grande che sia – è un’accozzaglia indescrivible di edifici, bellissimi o decadenti, drugstore, fast food e quant’altro, frammista a spazi aperti assolutamente abbandonati a se stessi. In un paese che ha esasperato il concetto di proprietà privata sembra che il concetto di spazio pubblico semplicemente non esista. Il paesaggio, al di fuori dei parchi e delle aree tutelate, non è di nessuno pertanto non riguarda nessuno.
Lo spazio diventa meraviglioso solo quando è privato, che sia una fantastica villa o l’edificio di una multinazionale, il resto non conta, è spazio da utilizzare.
Questa concezione pazzesca si riflette anche nel modo in cui si approcciano le città, che sembrano paradossalmente degli enormi scenari di Hollywood, dove si rimane a bocca aperta guardando le facciate principali e profondamente delusi appena si gira l’angolo, come se appunto fossimo in un mondo di scenari di cartone. Dietro la facciata “Made in USA” c’è sempre un retro che spesso è sporco, trasandato e in cui persino le linee elettriche non sono interrate ed hanno trasformatori appollaiati in cima a pali di legno.
La stessa sensazione si ha guardando le persone: l’opulenza più sfrenata lascia il posto alla miseria nera nel giro letteralmente di pochissimi metri: come se a Torino ci fosse un pezzo del campo nomadi fra piazza Castello e piazza San Carlo. Eppure qui nessuno sembra stupirsi.
Ovunque pervade un’atmosfera di precarietà, in cui le cose sembrano pensate e realizzate nel migliore dei modi – in questo sono veramente bravi, bisogna riconosceglierlo – per lo scopo a cui servono, ora.
“Right here, right now”, esattamente.
Quando poi il business è finito lascia il posto alla decadenza, tanto lo spazio qui non manca di certo. Così si puo’ assistere ad interi paesi fantasma oppure ad un’Hollywood Strip lasciato in balia della sporcizia e dei drugstore di quart’ordine, semplicemente perché oggi lo shobiz si è spostato in un altro quartiere di Los Angeles. Eppure qui, su questi marciapiedi e in questi teatri, si è scritta la storia del cinema e del jazz.
Perfino il vento neoecologista che la Natura ci sta inculcando a forza di cicloni e inondazioni qui sembra stranamente non spirare affatto. Potrei racontarvi dello spreco di acqua visto ovunque, anche in mezzo al deserto, oppure di automobili 3.500 cc considerate di media cilindrata o di migliaia di km in mezzo al deserto dove non solo non si scorgono centrali solari o eoliche, ma danno triste spettacolo decine di centrali elettriche a carbone….
Ancora allibiti dalla follia collettiva che sembra pervadere questa nazione ci si puo’ così imbattere in dibattiti televisivi dove non ci si interroga, come fortunatamente in Europa ancora accade, sul senso che tutto cio’ possa avere, bensì sul fatto che venga usato “taxpayer money” per aiutare le popolazioni statunitensi colpite dagli uragani.
Così, scappando da Palm Springs dove il tono normale delle conversazioni verte sulle operazioni di chirurgia estetica approdiamo alla costa pacifica, dove Los Angeles e i suoi sobborghi troppo ricchi o troppo poveri ci regalano ancora stupore per gli eccessi di questa società dell’”over the top” a ogni costo.
Qui il livello economico sembra inoltre direttamente proporzionale al livello di finto salutismo della popolazione. Parlo di finto salutismo perché il cibo americano da solo è sufficiente a vanificare ore di jogging o di fitness. Ma la salutista bassa California non si ferma qui, per le strade di Santa Monica e di Malibu è vietato fumare (per le strade, avete letto bene…) nonché possedere o bere alcuna forma di alcolici.
Così si puo’ assistere alla scena di solerti sceriffi in spiaggia (armati di quad e pistola) che – dopo aver effettuato test elettronici sulle bevande dei ragazzi – infliggono multe e verbali ai delinquenti che hanno osato portarsi in spiaggia una birra.
E così, dopo aver viaggiato per settimane in questa nazione, pervade improvviso ma fortissimo il desiderio di Europa, di casa. Perché paradossalmente qui mi sono sentito molto poco a casa. Scrivo paradossalmente in quanto pensavo che – a parità di modello occidentale – la differenza culturale fosse più contenuta rispetto a paesi in via di sviluppo, socialisti od islamici. Oggi mi accorgo che non è affatto così e concludo citando una bella riflessione letta sul sito dei Subsonica, che curiosamente sintetizza molto bene tutto cio’, ovvero che Europa-USA, per i miei canoni, finisce irrimediabilmente 6-0 6-0.
“L'Europa....da qualche parte al di là di tutte le diffidenze su ciò che potrebbe essere e che di certo in qualche modo sarà, viene da pensare che è bello sentirsi in diritto di essere a casa. Al di là delle genuflessioni filo-atlantiche delle quali andare ben poco fieri, l'Europa è un gran posto. La modernità nasce qui e qui trova un seppure precario senso di equilibrio, al riparo, anche se non di certo al sicuro, da aspetti totalmente alienanti che pervadono società come quella americana o giapponese. Lontana dai totalitarismi dei giganti del passato o dei nascenti astri economici, l'Europa è più che mai il luogo dove la qualità della vita e senso della democrazia sono fattori endemici, difficili da sradicare. Comunque, l'idea che da Lisbona all'estremo nord ci sia un unico luogo da considerare in un certo modo casa propria, affascina eccome.”
3 commenti:
Ciao Cri! E' bellissima questa descrizione della città americana. Spiega perfettamente il perchè (o uno dei perchè) non potrei mai vivere negli USA. Le nostre città fondate dai romani e poi modellate dal medio evo non sono insiemi di costruzioni, sono la nostra storia, le nostre radici, la nostra identità. Come si potrebbero barattare con pezzi di cemento, acciaio e vetro buttati a casaccio?
ciao caro,
in realtà, buona parte di quanto scritto è frutto dell'esperienza (nonchè occhio....) professionale della mia dolce metà, ma rispecchia pienamente il senso di vuoto, isolamento e precarietà che si ritrova in quasi tutti gli aspetti della cultura americana. e che tanto ci ha scioccato\deluso.
un abbraccio e bentornati!!
E' vero ci sono un paio di indizi che la paternità è di Antonio. Mi è venuta in mente la frase che uno dei due fratelli toscani dice ad un americano nel film "Good morning Babilonia" di Paolo e Vittorio Taviani: "Io sono il figlio del figlio del figlio del figlio di Raffaello, Leonardo da Vinci e Michelangelo. Di chi sei figlio tu?" Un abbraccio anche a voi due!
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