martedì 29 gennaio 2008

Into The Wild.... your own

Ci sono film e libri che entrano nel cuore piano, silenziosamente, per poi scoppiare dentro e lasciare una traccia, una cicatrice, un segno del proprio passaggio.
Toccano corde profonde, intime, apparentemente solo nostre, in realtà…. rintracciabili nella storia personale di ciascuno.
Ieri sera abbiamo finalmente visto INTO THE WILD.
Finalmente perché scalpitavo da giorni per andarlo a vedere. E nonostante la stanchezza da lunedì sera, ce l’abbiamo fatta. La lunghezza del film devo esser sincera ci ha un po’ provato, ma il senso di libertà misto all’amarezza agrodolce che si prova una volta usciti dal cinema, senza dimenticare i fantastici panorami, fanno passare in secondo piano i 148 minuti della pellicola, che, alla fine, vorresti quasi non finisse più.
Into the wild è un film praticamente perfetto, nella sua voluta imperfezione e anticonformismo. La regia, la fotografia, la sceneggiatura, la colonna sonora, i caratteri dei personaggi, la recitazione, la struttura stessa del film sono perfetti. Non nel senso artistico o tecnico del termine (che comunque meritano una citazione), bensì nella loro essenza.
Il film ti entra e rimane, perché quello che Alex Supertramp sperimenta non soltanto nel suo viaggio ma nella sua storia personale (e in quella di tutte le persone che ruotano attorno a lui) fa parte delle esperienze di ognuno di noi. Realmente vissute, tentate, sognate, sfuggite o anche rifiutate. Per scelta o imposizione. Alex non è un eroe, bensì rappresenta ogni essere umano nella sua essenza più intima e profonda.
Girovagando su internet, ho trovato tra le mille recensioni questa, che mi sembra particolarmente completa e toccante.
Non aggiungo altro, se non il consiglio di andarlo a vedere e di lasciarvi penetrare da ogni inquadratura, pensiero, emozione, riflessione che questo film vi trasmetterà e farà nascere.
E magari… uscirete anche con la voglia di riempire la vostra valigia al più presto e andarvene da qualche parte alla scoperta di nuovi luoghi. Che siano il parco nazionale d’Abruzzo o, perché no….. il deserto del Gobi.

Vado al cinema da solo, oggi - saranno vent’anni che non lo faccio - perché Into the Wild di Sean Penn mi attira al di là e nonostante le recensioni, le stelline o i quadratini sui giornali, i commenti così compostamente «culturali» che lo accompagnano. Disturbano come sempre la mitologia («mito americano», «mito della vita selvaggia», «mito della forza e del coraggio fisico» ecc.), che è un modo come un altro di non confrontarsi con niente.
Sean Penn, che per certi è solo un De Niro mal riuscito, è in realtà il più anticulturale degli attori e dei cineasti, all’opposto del suo presunto modello. È per questo che mi piace.Into the wild racconta la storia tragica e vera - tratta dal romanzo di Jon Krakauer Nelle terre estreme (Corbaccio, pagg. 267, euro 16.60) - di Chris McCandless, studente modello e lettore vorace, che dopo la laurea decide di abbandonare la famiglia - che odia - per cercare un rapporto solitario e totalizzante con la natura. La sua preferenza per autori come Jack London, Lev Tolstoj e Henry David Thoreau è un segno preciso, e già preoccupante, della sua chiarezza d’idee - troppo chiare, quelle idee, come se un guasto d’origine facesse crescere troppo la pianta per poi impedirle di maturare.
Chris, che si ribattezza Alex Supertramp («supervagabondo»), ha in mente una destinazione finale dei suoi viaggi: l’Alaska. Prima, però, vuole prepararsi all’impresa, vincere le paure ataviche - quella dell’acqua, per esempio -, fortificarsi nel fisico, e al tempo stesso far perdere le proprie tracce, non soltanto ai genitori, ma alla società intera. I suoi scrittori di riferimento, sia pure in modi diversi, hanno un punto in comune: l’opposizione tra natura e società. E devono perciò tutti e tre qualcosa a Rousseau. La società - di cui gli sgangherati genitori di Chris sono la concrezione estrema e maligna - ha un solo scopo: quello di creare risposte finte alle domande dell’uomo. Perciò l’uomo, se vuole sapere veramente chi è, deve allontanarsi dalla società e rifugiarsi nella natura.
L’Alaska è il luogo destinato di Chris perché lì, forse, è ancora possibile una fuga. La società ha invaso la natura, perfino il Grand Canyon è regolato come la City di Manhattan. Gli uomini buoni finiscono in galera, oppure vivono di ricordi. La società li taglia fuori come tanti rami secchi.
Chris ha la possibilità di vivere con alcune persone buone, ma non accetta di condividere la loro sorte di sconfitti. Ha ventitré anni, e splende in lui una giovinezza che non ammette sconfitte, una giovinezza vittoriosa proprio perché giovinezza.
Inizia così lo splendido fallimento della sua spedizione in Alaska. Nemmeno l’amore di una bella ragazza hippy lo ferma. Né l’amore né tantomeno il sesso rispondono infatti alla domanda, all’incessante «I want!, I want!» che urla dentro, come scriveva Saul Bellow. E allora non ci si può fermare, non si può amare, non si può procreare per non dare inizio a nuove catene di mostruosità e di mostri.
A dispetto di tutte le notizie orribili che apprendiamo sul loro conto, i genitori di Chris ci appaiono attraverso l’occhio del regista, che li guarda con pietà. I venti secondi in cui il padre (William Hurt), uscito disperato di casa, cammina furiosamente fino alla strada per poi sedersi lì, nel mezzo, sono forse la cosa più bella del film. Lì, forse, questo sciocco borghese comincia a capire la vera tragedia di suo figlio. La capisce perché la scopre dentro di sé.
Thoreau, London, Tolstoj, il buon selvaggio, la fuga dalla società, il contatto diretto con la natura sono tutte menzogne, tutti (al più) pretesti, chiacchiere giustificative per dare un’apparenza discorsiva, dialettica, etica a ciò che non conosce parola né discorso né morale, a questa malattia cieca per la quale un individuo, perlopiù un giovane, comincia a vedere il proprio futuro come un imbuto sempre più stretto, e la vita come la lenta esecuzione di una condanna a morte.
La fuga di Chris ha questo di particolare, che è come tutte le altre: come quelli che muoiono per droga. Succede alzandosi una mattina, oppure assistendo per strada a un fatterello in apparenza insignificante che fa da detonatore per una bomba nascosta in noi chissà da quanto tempo. Ma altre volte l’inizio si trova prima ancora, al tempo delle sciocche lacrime notturne infantili, o delle prime congetture su «cosa farò da grande».
La colpa non è della società né dei genitori. C’è chi, più avveduto, si tiene a distanza da una voragine che c’è, dentro la vita, e chi non riesce a evitarla. Questa voragine non si spiega. Esiste, e basta. È quello scandalo di cui tutta la storia dell’umanità ha parlato.
Qual è l’origine del male? Perché non esisterà mai un mondo perfetto? Perché il bene che vogliamo fare ci si corrompe tra le mani? Imagine, cantava John Lennon. Poveretto. Chiamatela società, chiamatela capitalismo, chiamatela semplicemente peccato originale, che è la definizione meno ipocrita e più concreta. È quella cosa lì.
Chris pensa di poter dominare la natura dell’Alaska. Ha un fucile, è fisicamente fortissimo, ma come si fa a non sapere che in certi periodi dell’anno gli animali sembrano scomparire, e che in quei periodi un fucile non serve a niente? La sua Alaska immaginaria va in frantumi sotto i colpi di quella reale, di cui gli manca la chiave di lettura: uccide un alce ma i vermi e le mosche glielo portano via, poi, in preda alla fame, scambia una patata velenosa per una commestibile.
Il vero si rivela, alla fine, e come sempre non porta soltanto dolore.
La fine di Chris è quasi una guarigione. Come Ivan Ilic’ del racconto di Tolstoj muore gridando «non c’è più la morte», così Chris prima della fine fa in tempo ad annotare queste parole: «Non esiste felicità se non è condivisa».
La sua non è la morte di un testardo malato, ma di un uomo sano. Il Novecento e l’Ottocento si allontanano da noi, ma non abbastanza da toglierci di dosso una delle loro maledizioni: quella di essersi vergognati della verità e della realtà (ivi inclusa quella del male) al punto da sostituirle con un discorso pieno (psicologia, sociologia) di comprensione e di dubbio, da una strategia di addomesticamento.
La sorte di Chris appare come una specie di drammatica salvezza da tutta questa menzogna. Alla fine, almeno l’io si salva. Il male dei secoli è sconfitto.

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